Ci sono argomenti che non si vorrebbero mai trattare e tenere il più possibile lontani da sè. Ma la vita non è fatta certo solo di buone notizie, per questo mi accingo a toccare un tema delicato quanto doloroso: il lutto.
Parlo di lutto pensando non a quando si perde una persona che si conosceva, o un lontano parente, ma quando chi se ne va è qualcuno che “fa la differenza”.
Che sia un padre, una madre, un caro amico… qualcuno la cui assenza è un urlo, e la cui mancanza è così forte da, perdonate il controsenso, sembrare una presenza.
In clinica mi capita spesso di incontrare persone che hanno perso la mamma da qualche anno e che ancora ne portano i segni, o meglio, ancora sembrano non avere digerito la mole di dolore che comporta. E questo dolore resta lì, a combinare casini. Perché il guaio in effetti è proprio la mole di dolore che si solleva.
Quando qualcuno per noi vitale se ne va, banale dirlo, se ne va una parte di noi, quella parte che vivevamo insieme a lui/lei. Ma soprattutto se ne va quella persona. Non esiste più, stop, non la incontreremo mai più.
Questo tipo di considerazione può far capire che tipo di urlo di protesta, dolore acuto si leva dentro di noi, che rifiuto, che strazio genera, insieme a rabbia, impotenza, smarrimento.
Diversi libri di psicologia parlano di “fasi di elaborazione del lutto“, come di step da superare perché la situazione torni alla normalità. Hanno sicuramente la loro importanza e validità, è vero che con il tempo le cose vanno meglio, che la vita va (inaspettatamente) avanti ma credo più di tutto che, se si vuol giungere ad una vera “accettazione” dell’evento il passaggio obbligatorio sia il dolore.
Il dolore nella sua forma più pura, annientante, per quel che mi riguarda il dolore che rende muti. Ho sempre pensato che i dolori più grandi ci lascino così, senza parole ne’ energie. Ci trasportino nel silenzio più profondo e immobile.
Passare attraverso il dolore, quale esso sia, vuol dire sempre e comunque una sola cosa: sentirlo.
Ovvero piangerlo, farlo vivere, dargli spazio. Evitare di reagire fin da subito, fare confusione per zittirlo, evitare di riempire la vita di mille impegni per distrarsi. Da se stessi non ci si può mai distrarre.
Tanto vale pagare subito il conto. Quando si è pronti certo, non subito se non è il tempo, ma farlo prima o poi.
Sentire. Il vuoto, il nero, il silenzio, la solitudine. Lo so, fanno paura, ci rendiamo conto di quanto siamo fragili e vulnerabili, razza umana, piena di sé ma in fondo così barcollante su questa terra.
Ma se soffriamo ci renderemo conto che un giorno il dolore FINISCE. Finisce ogni dolore, il più forte anche, anche quello che non l’avremmo mai detto. Finisce perché le emozioni hanno una fine. Tutto ha un termine ma non solo, si trasforma. E ci trasforma.
Per cui, io ai miei pazienti dico sempre di prendersi tempo, fare ciò che si sentono, non scappare, non mentire a loro stessi. Credere nel potere della passività, del lasciar accadere. Nessun dolore è più forte di noi, delle nostre risorse e ricchezze.
E poi, passata quella fase, ne arriveranno altre, in modo naturale.
Di rinascita, vita, gioia, voglia di fare, onorare chi non c’è più e farlo nel modo migliore: vivendo e dedicando a lui/lei qualche momento di felicità. Pensateci a chi non c’è più, quando assistete a qualcosa di bello, che sia un tramonto o una canzone, quando vi attraversa una bella emozione.
Onorate chi non c’è facendo qualcosa, piccola anche, come lo faceva la persona scomparsa, con i suoi gesti e modi. Per farla vivere ancora, perché sarà scomparsa dagli occhi ma mai potrà farlo dal nostro cuore.
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