La mattina, quando mi sveglio, ho quei cinque secondi in cui mi chiedo se è successo davvero, se siamo davvero in quarantena, se davvero c’è una pandemia. Tutto è così irreale e assurdo che una parte di me fatica a crederci. Ma poi mi alzo e so che dovrò fare i conti anche con quel giorno lì, so che dovrò essere serena per i miei figli, professionale per i miei pazienti e so che mi manca la mia famiglia, che abita a dieci minuti di strada, ma sembra lontanissima. Alcune giornate riescono meglio, altre sono nervose, tristi o ansiose. Non ho la ricetta per gestire questa situazione, nessuno ce l’ha. Faccio quello che posso e vado a momenti, con la consapevolezza che la mia giornata, anche se a volte infinita, è comunque meglio di chi è in prima linea a sporcarsi le mani e rischiare la salute per curare.
Spero solo che tutto questo serva a qualcosa, che sia terreno fertile per le persone e per le istituzioni, che questo dolore, queste morti siano serviti a qualcosa. Ai miei pazienti dico sempre così: bisogna dare un senso al dolore, far sì che ne nascano nuove risorse, nuove coscienze. Qua non si tratta di imparare a fare la pizza o trovare nuovi hobbies, qua si tratta, un domani, di ricordarsi che siamo esseri fragili, che credere di avere controllo sulla propria vita è in gran parte un’illusione.
Ma ancora di più si tratta di capire che questa coscienza, ovvero la nostra vulnerabilità, deve servirci alla Vita. La Morte, il senso di morte, l’angoscia, deve servire a tenerci svegli, non a terrorizzarci, non a tagliarci le gambe. Parlo dal punto di vista psicologico ovviamente, di come questo evento può essere trasformativo in positivo se glielo permettiamo. Di come può essere spunto per dare un senso, per chiedersi cosa davvero vogliamo, cosa stiamo evitando per paura, cosa stiamo rimandando da troppo tempo. Ecco, auguro questo (me stessa compresa), che, un domani, tutto questo, possa renderci migliori.
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