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La distanza dal paziente

La distanza dal paziente

Ho iniziato anni fa pensando di dover tenere una distanza bella ferma dal paziente: non lasciarsi troppo coinvolgere, sentirsi solo negli appuntamenti salvo rari casi e finita la terapia non sentirsi più. L’esperienza mi ha insegnato tante cose, come è giusto che sia. La distanza è uno spazio che diamo all’altro, è quindi indice di riconoscimento e rispetto altrui, ma forse quando ho iniziato era più la paura di portarmi dietro troppa sofferenza a regolare questa distanza, soprattutto in quelle situazioni in cui il dolore era molto intenso.

Capita tante volte tra medico e paziente, soprattutto per quei medici che trattano malattie importanti. Si usa la freddezza per difendersi, si trattano corpi e non persone, dall’essere asciutti e stringati fino all’essere sgarbati e pieni di tecnicismi. Il medico sembra oscillare tra una pericolosa e distruttiva (per lui) umanità e una roccaforte da cui non scendere e guardare tutti da lassù. E la giusta distanza dal paziente sembra difficile da trovare.

Soprattutto con le situazioni più ardue come medici e psicologici abbiamo una risorsa di grande valore in questi casi apparentemente senza soluzione. Questa risorsa si chiama compassione. Compassione significa letteralmente “cum patior” in latino, “soffro con”, ovvero essere con la sofferenza dell’altro. Stare lì insieme, con la consapevolezza di non poter risolvere né intervenire in modo risolutivo sul problema. Sembra un atto da nulla ma non lo è e sostiene tantissimo non solo il paziente ma il medico stesso, perché fa sentire efficaci. La cura non è sempre l’eliminazione del problema, a volte la cura è l’accompagnamento e il sollievo che si può donare a chi ne ha bisogno, facendo quindi il meglio possibile in quel momento.

Questa consapevolezza anni fa non ce l’avevo e forse per questo certe situazioni di malattia o disabilità grave erano molto pesanti sopportare, proprio per la sensazione di impotenza che sentivo. Così in presenza del paziente non mi davo pace, mi sentivo inutile e in sua assenza ci pensavo spesso. Pochi giorni fa ho salutato una persona in procinto di un serio intervento e che spero di rivedere presto. Ho vissuto questo percorso con tutta la compassione possibile, a volte non dicendo nulla, soltanto ascoltando e stando lì, senza la soluzione, perché la soluzione non c’era. Ma questa mia fragilità non l’ho rifiutata, l’ho sentita. Mi sono buttata in questa esperienza così e non sapevo cosa ne sarebbe uscito ma ho scoperto che questo ascolto compassionevole ha sostenuto anche me e che essere lì presente poi non mi chiedeva di esserlo dopo con la mente.

Per questo penso che una sana distanza dal paziente non significhi freddezza ma esserci senza perdersi, ascoltare senza scomparire, senza darsi colpe o attribuzioni magiche che non esistono. Troppe sono le storie che ancora sento su medici maleducati o poco chiari, che in momenti delicati fanno perdere fiducia in chi dovrebbe curare e forse non sanno quanto potere ha ancora oggi l’Umanità. Quello che del resto ci distingue letteralmente da altre forme di Vita.

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