Secondo me l’ascolto in terapia somiglia un po’ al “silenzio” della neve.
Deve essere avvolgente e trasmettere calma, ma al tempo stesso fare da amplificatore a tutti i suoni, far in modo che emergano in modo più netto. Suoni come metafora dell’altro, delle sue emozioni, dei suoi pensieri e tormenti, che possono così acquisire più nitidezza.
Mi spaventa il terapeuta che ha necessità e urgenza di fare, proporre tecniche, per aiutare chi ha di fronte e mi sembra tanto un modo per non esserci davvero, come persona. Perché a volte, davvero, funziona di più un ascolto attento, passivo, una vera accoglienza priva di giudizio, la creazione cioè di uno spazio in cui la persona si ascolta e ri-conosce. Pare poco, ma non lo è.
Vuol dire farsi da parte per far emergere l’altro, che si sente, voce narrante di sé, e non usa il terapeuta come solutore di problemi ma come attivatore di risorse.
Cosa dice chi ho davanti? Come mai nella sua vita è arrivato a pensare questo? Cosa posso fare io per favorire in lui uno stato di benessere? Quale parte di sé sta soffocando?
Ogni persona e ogni storia è un’enigma, una delle infinite possibilità che l’essere umano ha a disposizione per esprimersi. Non bene, non male, non giusto né sbagliato. Per questo a volte ascoltare davvero produce effetti notevoli, perché il terapeuta diventa lo spettatore di ciò che tu sei, della tua personalissima messa in scena, e per quanto utile possa essere l’uso di una tecnica non è mai come mettersi di fronte e percepire davvero chi si ha davanti.
Percepire per rimandare all’altro ciò che è, semplicemente.
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